Il “classico” come materia prima: i Marmi Torlonia
Già in copertina del suo Futuro del «classico» (2004), Settis introduceva che “[o]gni epoca, per trovare identità e forza, ha inventato un’idea diversa di «classico». Così il «classico» riguarda sempre non solo il passato ma il presente e una visione del futuro”. Queste parole potrebbero, senza alcuna fatica, essere anche il preludio alla mostra romana I Marmi Torlonia, Collezionare Capolavori che, non a caso, è curata proprio da Salvatore Settis e Carlo Gasparri.
Quello che “celano” questi marmi sotto la loro polita, rassicurante e costruita uniformità, è una complessa stratificazione di segni, tangibili e non, che li rende preziosi testimoni della nostra storia. Riportare all’attenzione del pubblico le vicende della “onnivora impresa collezionistica” (Gasparri – catalogo della mostra) dei Torlonia, che hanno dato vita ad una raccolta piuttosto tarda – sostanzialmente nel XIX sec. – e celebrata soprattutto con la fondazione dell’omonimo museo, ora scomparso, da parte del Principe Alessandro nel 1875, è una importante occasione per interrogarci (anche) sull’articolato e mutevole ruolo del «classico».
Il «classico» come materia prima, imprescindibile ingrediente di una elaborata narrazione che intreccia aspirazione, erudizione, competizione e (auto)rappresentazione, è il pilastro di questa mostra che viene volutamente svelato in modo palese solo nell’ultima sala. Davanti al pastiche (quasi shelleiano) dell’Ercole con leontè e pomi delle Esperidi (91, MT 25), dato alla luce assemblando circa 112 frammenti antichi di diverse sculture e integrazioni moderne, anche il visitatore meno attento dovrebbe essere spinto ad interrogarsi a ritroso su quanto ha appena visto attraversando le 14 sale della mostra, un po’ troppo scarne di apparato informativo, forse per enfatizzare l’estrema e algida (e, nota soggettiva, bellissima) – anche questa evidentemente una precisa scelta – pulizia formale dell’allestimento e dell’illuminazione, rispettivamente a firma di David Chipperfield Architects Milano e Mario Nanni.
Prima di iniziare:
riflessioni sulla “scalabilità” delle informazioni
La scelta operata descritta poco sopra – è una mia personale supposizione nata da un dialogo con un mio caro professore che ringrazio – sembra essere motivata dalla volontà di articolare le informazioni trasmesse in base al presunto interesse, e al conseguente impegno, del visitatore. Il livello “zero” è affidato alle (fin troppo?) scarne didascalie: numero di catalogo, soggetto (a volte abbreviato), datazione; e ai brevi pannelli introduttivi alle sale. Il livello “uno” integra il precedente con un vademecum compreso nel prezzo del biglietto, dove vengono succintamente contestualizzate le sale, e forniti ulteriori dettagli sui pezzi in mostra: soggetto (esteso), provenienza/acquisizione, materiale, numero di inventario. I successivi livelli sono a pagamento. Il livello “due” è rappresentato dall’audioguida (molto consigliata) che, malgrado piccole sviste – alcuni codici non esistenti, ordine delle descrizioni non sempre corrispondente alla sala – ha il pregio di narrare le cruciali vicende collezionistiche dei pezzi in mostra. I livelli “tre” e “quattro”, rispettivamente la guida e il catalogo editi da Electa, vanno ad implementare ulteriormente i contesti e le opere grazie ai contributi di diversi studiosi e alle schede. A questi strumenti a pagamento vanno aggiunti gli utilissimi comunicati stampa e i saggi introduttivi dei curatori liberamente scaricabili dal sito della mostra.
Da questa (neppure tanto) breve panoramica, emerge una notevole complessità del confezionamento delle informazioni che, evidentemente, deve essere stato attentamente e quindi volutamente articolato in diversi gradi di approfondimento crescente. Personalmente rimane solo il dubbio che il livello “zero” sia forse fin troppo asciutto, lasciando le opere isolate nella loro magnifica bellezza, ma prive del contesto e della loro storia stratificata, cioè dei due elementi che rendono la “collezione di collezioni” Torlonia così straordinaria.
Stratificazione di segni
La stratificazione dei segni, tangibili e non, che le opere portano, rendono queste ultime testimoni del mutare del contesto sociale, del gusto e delle ambizioni. Queste sculture sono state (e sono tuttora, basta leggere la dichiarazione dell’amministratore delegato di Bvlgari, generoso main sponsor della mostra: “si è trattato di un omaggio alle radici greche e romane dell’azienda”) interpretate, caricate di significati, alterate e usate in modo diverso nel corso della loro lunga storia. Questi processi non sono ovviamente una esclusiva della collezione Torlonia, ma il numero di pezzi (in mostra è esposta solo una “stringente” selezione di 92 opere), la loro qualità e le loro vicende rendono questa raccolta particolarmente pregnante.
la presentazione museale rispecchia la società che l’ha creata e fornisce numerose indicazioni sulla visione e l’importanza che attribuisce alle culture antiche. Come una pièce teatrale mette in scena la società di cui parla attraverso una visione moderna, così anche la messa in scena museale presenta le società antiche come sono viste dai moderni attori
Silvia Roman 2017
I sec. d.C. con integrazioni e base moderna (48, MT 279)
I segni tangibili sono evidentemente quelli visibili, anche se spesso fin troppo ben camuffati: restauri, integrazioni e rilavorazioni storiche, che ci hanno consegnato i pezzi come li vediamo oggi, molto diversi (in alcuni casi vere e proprie creazioni ex-novo) da come dovevano essere in origine. Sostanzialmente tutte le opere in mostra non sono passate indenni a questa pratica di restauro integrativo, ed alcune ne sono testimonianze straordinarie.
L’iconico Caprone (78, MT 441), entrato nella collezione Torlonia nel 1816 con l’acquisizione della raccolta di Vincenzo Giustiani (1564-1637), è composto da un corpo in gran parte risalente al I sec. d.C. e una magnifica testa moderna attribuita (ipotesi che oggi sembra essere confermata) a Gian Lorenzo Bernini. Al padre di quest’ultimo, Pietro Bernini, sono invece attribuite le integrazioni alla statua di Afrodite accovacciata (sempre dalla collezione Giustiniani, 74, MT 182) in particolare la testa e la mano destra che regge un portaprofumi. Questa scultura fa da pendant all’altra Afrodite gemella, esposta nella sala con l’intento di ricreare il gioco di simmetrie che “caratterizza molte collezioni romane di antichità” (Buccino – catalogo della mostra), e non solo, aggiungerei io, basti pensare all’allestimento della Tribuna Grimani a Venezia.
I Bernini, padre e figlio, “si esercitarono […] nella serratissima gara a chi riuscisse a fare riprender più vita ai laceri marmi antichi. Una questione generazionale che si intrecciava con la questione degli antichi e dei moderni” (Montanari 2020 – catalogo della mostra).
testa moderna att. a Gian Lorenzo Bernini (78, MT 441)
in primo piano quella con testa moderna att. a Pietro Bernini (77, MT 170; 74, MT 182)
La disposizione vuole suggerire il sistema di simmetrie e corrispondenze dell’antico allestimento.
Inevitabilmente questa lunga evoluzione e mutazione delle opere è ben lungi dall’essere cristallizzata. Malgrado le innovazioni tecnologiche e metodologiche, la pratica del restauro equivale comunque, anche oggi, ad operare precise scelte che si traducono in nuovi segni (per quanto, di norma, reversibili) e nuove narrazioni, ed ancora una volta le opere qui esposte ne sono un esempio.
I segni intangibili sono invece il risultato di scelte ed azioni che hanno spesso finito per modificare il significato ed il ruolo delle opere: in primis le vicende collezionistiche e museali. Malgrado il valore del singolo pezzo sia inequivocabile, è il suo dialogo con la collezione entro la quale viene inserito ad aggiungere ulteriori livelli di significato che toccano in modo più ampio il contesto sociale e culturale. Il ruolo del collezionista, e dei suoi collaboratori come i restauratori, è cruciale quindi per comprendere il racconto e le aspirazioni che gravano sulle opere, o per meglio dire sulla collezione nel suo complesso. Settis sottolinea come la corsa alle raccolte di antichità:
non prese origine solo dalla cultura umanistica e dal gusto estetico, come si tende a credere, ma ebbe radici assai più vaste e varie, e fu innescata non tanto dal valore artistico o documentario dei marmi raccolti, quanto da motivazioni squisitamente politiche […]. Il momento decisivo di questo sviluppo ebbe luogo a Roma sul principio del XV secolo, al ritorno dei papi nella loro capitale dopo l’esilio ad Avignone e la fine dello Scisma d’Occidente. La presenza nuovamente incombente della Curia pontificia spinse i cittadini romani a riaffermare il loro orgoglio di Romani naturali […]. Tale strategia di auto-nobilitazione era volta a garantire e migliorare il proprio status nella mutata situazione istituzionale della città. Parte integrante di tale strategia fu il recupero di sculture e iscrizioni antiche dalle rovine in cui giacevano e la nuova pratica socio-culturale di portarle nelle case come segno di dignità e distinzione.
Settis 2020
Un esempio su tutti è rappresentato dalla cd. Tazza Cesi o Vaso Torlonia (81, MT 297). Questo grande cratere con simposio bacchico è infatti noto per il suo continuo peregrinare. Originario forse degli Horti di Agrippina (Dodero 2020- catalogo della mostra), è documentato alla fine del XV sec. nella chiesa di Santa Cecilia in Trastevere (o San Francesco a Ripa); poi dagli anni trenta del Cinquecento è ritratta come fontana da Van Heemskerck nel giardino di Villa Cesi; almeno dal 1760 è a Villa Albani associata ad una statua di sileno (anch’essa da Villa Cesi, in mostra ne è presente però un altro simile), e infine approda al Museo Torlonia. Ai vari spostamenti di contesto ed utilizzo possono essere anche associati i vari e numerosi interventi: nel Cinquecento sono state aggiunte le zampe, il supporto centrale e le anse, mentre lo straordinario fregio con racemi di vite e l’orlo decorato sono ottocenteschi. L'”originale” (il virgolettato è d’obbligo a questo punto) scena con simposio della fine del II – inizi I sec. a.C., che ritrae alcuni fotogrammi di sensuale mollezza, si trova quindi a dialogare magnificamente con una complessa e stratificata operazione di restauri e rifunzionalizzazioni moderne e contemporanee.
Fregio con vite ottocentesco; zampe e anse cinquecentesche
Dell’attitudine collezionistica romana appena descritta, ben più antica dell’effettiva collezione oggetto della mostra, i Torlonia ne sono sostanzialmente gli eredi. Grazie alle rapide fortune imprenditoriali, agli accorti rapporti, matrimoni e frequentazioni nel delicato e tumultuoso periodo del Risorgimento, la famiglia sale velocemente fino al rango principesco e raccoglie voracemente opere antiche e moderne, soprattutto acquisendo intere, o quasi, collezioni preservandone l’integrità – basti pensare alla raccolta Cavaceppi o a quella Giustiniani, e promuovendo nuovi scavi. L’apice delle fortune collezionistiche è di certo rappresentato dalle imprese di Alessandro Torlonia (1800-1886) che, poco dopo aver acquisito Villa Albani, già sede della straordinaria raccolta del cardinal Alessandro Albani ordinata dal Winckelmann (anche se parzialmente perduta), decide di fondare nel 1875 un museo. Parte delle opere dislocate nelle varie residenze della famiglia vengono dunque spostate, ordinate ed esibite nel vasto edificio di via della Lungara, opportunamente riadattato. A questa decisione si affianca anche l’edizione e la diffusione di un imponente catalogo, il primo con tavole in fototipia, e varie attività di supporto allo studio e all’educazione.
Se l’inusitato accumulo di marmi antichi può avere avuto all’inizio, col duca Giovanni, motivazioni di interesse economico e finalità puramente rappresentative, esso impone alla fine, per la sua stessa consistenza, un esito di carattere sistematico, sorretto da un progetto a carattere scientifico […]. Ai due principi Torlonia si deve in definitiva il merito, tramite questa onnivora impresa collezionistica, di avere salvato dalla distruzione una delle pochissime ville storiche dell’Urbe scampata alla devastante urbanizzazione dell’età umbertina, e di avere impedito, in un momento in cui si celebrava l’ultimo atto di aggressione al suo patrimonio di antichità, la dispersione sul mercato, e l’emigrazione, degli ultimi residui significativi del grande collezionismo romano del passato.
Gasparri 2020
Percorso ed allestimento
Le vicende collezionistiche appena descritte si traducono in uno degli aspetti più interessanti della mostra: il raggruppamento delle opere e il percorso espositivo. Le sezioni tentano infatti di rispecchiare i diversi nuclei, o momenti, che hanno dato vita alla raccolta Torlonia, superando quindi la suddivisione cronologica o tipologica dei singoli pezzi. Ecco quindi che il percorso si avvia con l’evocazione dell’allestimento del perduto museo Torlonia di via della Lungara, per poi proseguire con i diversi nuclei ed acquisizioni: gli scavi del XIX sec., Villa Albani, Studio Cavaceppi, raccolta Giustiniani e le collezioni romane più antiche dei secoli XV e XVI.
L’allestimento, come già anticipato, è progettato da David Chipperfield Architects Milano, mentre l’illuminazione è a firma di Mario Nanni. L’intento dichiarato è quello di ispirarsi all’originale catalogo del 1885, dove ogni opera è isolata e valorizzata da un uniforme fondo nero. Questo si traduce concretamente nella creazione di sfondi omogenei per le pareti, con una palette per le varie sale che aiuta ad identificare i diversi nuclei collezionistici, e nella uniformità visiva tra il pavimento e tutti gli elementi che sostengono le opere. La scelta delle mattonelle (tanto vituperate) è stata dettata dall’esigenza di un elemento modulare e versatile che potesse essere impiegato sia per gli alzati che i piani e, secondo quanto riporta il progettista, è un “riferimento alle antiche architetture romane […] all’antico Tempio di Giove Ottimo Massimo: il più grande monumento esistito in Campidoglio con fondazioni tettonicamente e tradizionalmente in blocchi di cappellaccio”.
Strane coppie
Una delle conseguenze delle vicende collezionistiche, nonché degli studi e interpretazioni storiche dei pezzi, è la creazione di gruppi scultorei che vengono realizzati accostando, a volte anche unendo fisicamente con una base unica, due sculture che (verosimilmente) non erano in origine pertinenti. Ancora una volta, il “classico” viene interpretato, adattato e caricato di un nuovo livello di significato. In mostra gli esempi sono molti, ma qui vorrei citarvi il gruppo del cd. Invito alla danza e dell’Apollo e Marsia.
Il primo è composto da due sculture provenienti dagli scavi promossi dai Torlonia nel XIX secolo nelle loro proprietà, nello specifico dalla Villa dei Sette Bassi. Il Satiro (35, MT 21) del I sec. d.C. è ritratto mentre è rapito dalla musica: con il piede destro suona uno strumento a percussione a terra, mentre con la mano destra regge una sorta di coppa che potrebbe essere una “mal riuscita citazione dei cimbali del Satiro degli Uffizi” (Tuccinardi – catalogo della mostra). Gli equilibri e le torsioni del corpo sono la conseguenza di queste due azioni principali, la gamba sinistra poggia saldamente a terra, così come la mano sinistra si regge su un supporto. La Ninfa (34, MT 162) del I-II sec. d.C. contrasta lo scatenato moto del satiro con la sua tranquillità. È infatti seduta mentre è intenta a slacciare in modo molto sensuale il sandalo sinistro. Anche in questo caso, all’azione del braccio destro corrisponde la salda posizione di quello sinistro, andando a generare una torsione del busto che accompagna la gamba sinistra piegata. Il gruppo è noto tradizionalmente come Invito alla danza su analisi del Klein ed alcune rappresentazioni su alcune monete di età severiana: i due soggetti sarebbero ritratti infatti nell’attimo di complicità precedente al ballo, tuttavia non è certa l’esistenza di un modello originale antico e le due sculture in mostra presentano delle sostanziali differenze di scala (vedi il contributo di Tuccinardi nel catalogo della mostra).
L’altra coppia creata ex-novo, “con un effetto che sarebbe dovuto risultare raccapricciante per l’osservatore” (de Lachenal 2002 – catalogo della mostra) è l’Apollo e Marsia che provengono dalla collezione Giustiniani. L’Apollo (50, MT 463) è stato ottenuto – forse nel Cinquecento, o più tardi per volere del marchese – assemblando diversi parti di sculture non pertinenti, risalenti circa al I sec. d.C. Il risultato è quello di una figura stante con una accentuata ponderazione generata dal peso dell’epidermide della vittima tenuta con il braccio sinistro. Quello destro, abbassato, impugna i resti del coltello. Il Marsia scuoiato (51, MT 464) è l’esito di pesanti rilavorazioni – attuate forse sulla scia “della tradizione degli studi e dei trattati di anatomia editi nella seconda metà del XVI secolo” (de Lachenal 2002 – catalogo della mostra) – di un originale verosimilmente del I-II sec. d.C. che hanno avuto il fine di far emergere, scavando, in modo drammatico e violento la muscolatura che in principio non era così definita. Moderne sono le integrazioni che identificano il soggetto: la syrinx (lo strumento musicale) impiegata nell’infausta sfida ad Apollo, la palma del supplizio ed anche la testa.
In conclusione
A ogni sua nuova incarnazione, lo abbiamo visto, il “classico” viene presentato come un postulato più o meno scontato, ma in realtà riflette di volta in volta un progetto, e perciò può servire come cartina di tornasole per comprendere caso per caso coordinate e implicazioni.
Settis 2004
Le parole prese rispettosamente in prestito da Futuro del «classico» (2004) di Settis sono utili tanto ad avviare quando a concludere questo contributo. Il valore de I marmi Torlonia. Collezionare Capolavori è, a mio modesto avviso, quello di far intuire come il “classico” sia in realtà una costruzione, l’esito (temporaneo e parziale) di un lungo processo ancora in atto, e le opere che vediamo allineate lungo le sale ne sono gli impassibili, ma non indenni, testimoni. È richiesto uno sforzo al visitatore per cogliere questo aspetto, che non è ben palesato dall’apparato informativo presente in sala, serve quindi arrivare alla mostra un po’ preparati, e soprattutto tornarci.
(E poi, diciamocelo: le mattonelle sono bellissime!)
Consigli di lettura
- Roman, S. 2017, Il museo: confine tra le culture del passato e quelle del presente, in M. Cupitò, M. Vidale e A. Angelini (eds.), Beyond limits : studi in onore di Giovanni Leonardi, Padova, pp. 771-776.
- Settis, S. 2004, Futuro del “classico”, Torino
- Settis, S. e Gasparri, C. 2020, I Marmi Torlonia (catalogo), Milano
- Tuccinardi, S. 2020, I marmi Torlonia. Collezionare capolavori (guida), Milano
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