“A giant among midgets, I’ve walked into a battlefield. The fighting is almost over, and the massacre has begun”.
Con queste parole Stewart (2004) inizia la descrizione delle copie romane delle statue originariamente pertinenti al Piccolo Donario pergameno sull’acropoli di Atene, ora sparse in cinque città tra le quali anche Venezia. Ecco dunque spiegato il principale motivo della mia visita di oggi al Museo Archeologico Nazionale della mia città.

galata morto
Galata morto, legato Domenico Grimani 1523, INV. 56

Tuttavia c’è anche un altro movente, più inerente alla fruizione. A causa dell’emergenza COVID-19, tutti i luoghi espositivi della città lagunare sono fruibili in modalità “droplet” (7 marzo 2020), cioè con accessi limitati in modo da garantire una distanza di sicurezza di almeno un metro tra ogni persona. A dire il vero non c’è una grande necessità di filtrare gli ingressi, visto che la città è praticamente deserta, ma naturalmente tutte le procedure sono giustamente rispettate dal personale che prontamente spiega alla manciata di visitatori come circolare tra le sale e quali sono i comportamenti più idonei da seguire durante la visita.

In queste settimane difficili (tutt’altro che lasciate alle spalle, come appare evidente dalle nuove chiusure e restrizioni in vigore dall’8 marzo), il Museo Archeologico Nazionale di Venezia si è dimostrato particolarmente attivo all’iniziativa social #museiaperti, sperimentando modalità di fruizione alternativa. Di necessità virtù, lo staff del museo ha pertanto potenziato la diffusione di contenuti attraverso il profilo Facebook – che vi consiglio di seguire, questo il link – e ha organizzato visite alla collezione in streaming.

Le sculture

Galati del Museo Archeologico di Venezia
Sala VIII del Museo Archeologico Nazionale di Venezia

La sala VIII del museo è dedicata alla scultura e al rilievo ellenistico e, tra le altre opere, spiccano al centro tre statue, riconosciute – dopo svariate vicissitudini, lo vedremo più tardi – come tre copie romane di età imperiale raffiguranti soldati galati, una popolazione di origine celtica migrata in Asia Minore all’inizio del III sec. a.C.

Malgrado i restauri rinascimentali, che hanno verosimilmente alterato alcune pose e gesti, le tre sculture fissano, quasi in un fotogramma, diversi momenti di una cruenta sconfitta in battaglia: la paura, la perdita della speranza, la morte. Oltre alle espressioni atterrite, spiccano immediatamente le pose contorte e l’insistenza, quasi morbosa, sui dettagli più trucidi, come le ferite sanguinanti. Come ha suggerito Stewart, sembra davvero di camminare in un campo di guerra e di assistere al massacro dei vinti. La scala ridotta delle statue non fa che accrescere, anche involontariamente, un senso di superiorità, anche fisica, rispetto a questi morenti, il visitatore si aggira infatti tra di loro quasi come un gigante (sempre una intuizione di Stewart) che li guarda dall’alto verso il basso. Immediate sorgono alcune domande. Dove sono i vincitori? Le loro sculture sono andate semplicemente perse o non interessavano al collezionista? Siamo solo i testimoni di questo bagno di sangue, dal quale quindi dobbiamo imparare qualcosa, o ne siamo gli artefici? Come vedremo dopo, forse è da riconoscere lo zampino dei romani che hanno sì copiato degli originali greci, ma tutt’altro che in modo passivo.

“Artifacts are not absolutes – inert relics awaiting calm, detached, objective assessment – but dense, semantically opaque, evolving entities that live only through human discourse.”

Stewart 2004

Il Galata Morto (Dead Gaul)

Galata Morto Venezia
Galata morto, legato Domenico Grimani 1523, INV. 56

Il Galata morto è forse la scultura più carica di pathos del trio. Disteso su terreno roccioso irregolare, che costringe il corpo a disarticolarsi in una posizione ancora più contorta, questo giovane guerriero imberbe è ritratto nudo. La chioma fluente e ribelle sembra ricordare quella di Alessandro Magno, il braccio destro, protratto in avanti, impugna ancora lo scudo, mentre la mano sinistra tiene quel che resta della spada. La morte è appena avvenuta, visto che dalle ferite scorre ancora il sangue. Il corpo doveva essere originariamente trafitto da un’asta metallica, come si può evincere dai due fori “passanti” all’altezza dell’addome.

Galata in ginocchio (Kneeling Gaul)

Galata in ginocchio
Galata in ginocchio, legato Domenico Grimani 1523, INV. 57

Nella scultura del Galata in ginocchio il soldato sembra colto nel preciso attimo mentre soccombe al nemico. Lo sguardo voltato verso l’alto, verosimilmente in direzione del suo carnefice, lascia trasparire il momento nel quale realizza che non potrà salvarsi. A differenza delle altre due statue, qui il personaggio è vestito di una corta tunica legata in vita. Va notato che le braccia sono integrazioni rinascimentali e forse originariamente la destra impugnava la spada al contrario, come sembra suggerire la strana torsione del polso. Come per la scultura di Palazzo Altemps pertinente al Grande Donario pergameno (anche se l’espressione di quest’ultimo è più di fierezza che di sgomento), il Galata era quindi verosimilmente in procinto di commettere il suicidio (Coarelli 2014), oppure di chiedere pietà (Stewart 2004).

Galata che cade (Falling Gaul, “Breakdancer”)

Galata che cade
Galata in atto di cadere, legato Domenico Grimani 1523, INV. 55

La posa contorta e dinamica, che ha fatto guadagnare l’affettuoso appellativo di “Breakdancer”, sembra ritrarre il momento esatto della rovinosa caduta da cavallo di questo giovane soldato Galata, anche in questo caso completamente nudo. Tuttavia i restauri rinascimentali ne hanno probabilmente alterato la posa e gli attributi, sulla base di riscontri iconografici infatti il braccio sinistro forse in impugnava uno scudo, sollevato a protezione del guerriero.

Vicende collezionistiche

Nel 1514 – da ricordare che nel 1506 riemergeva il Laocoonte – Filippo Strozzi descrive in una lettera la sensazionale scoperta di “circa 5 figure sì belle quante ne sian altre in Roma. Sono di marmo […] e sono tutti chi morti, chi feriti, pure separati. Evi che tien che sian la historia delli Horatii et Curiatii” (inizialmente il gruppo era stato ritenuto pertinente al mito degli Orazi e Curiazi), venute alla luce durante i lavori di un non meglio identificato monastero della città eterna e prontamente acquistate da Alfonsina Orsini, madre di Lorenzo il Magnifico. Da indizi nella documentazione appare evidente che altre sculture, pertinenti al medesimo insieme, furono scoperte nello stesso luogo, per un totale forse di dieci.

Le tre oggi ospitate a Venezia compaiono per la prima volta nei registri nel 1523, in occasione della celeberrima donazione della collezione di Domenico Grimani che darà vita, dopo non poche vicissitudini – vedi l’articolo de l’Accademia degli Incerti e la collezione di Palazzo Grimani – allo Statuario Pubblico della Serenissima (il nucleo dell’attuale museo archeologico), ma appare piuttosto certo che il collezionista veneziano le avesse acquistate dalla medesima fonte di Alfonsina Orsini (Coarelli 2014).

Donazione Grimani Statuario Pubblico
L’iscrizione, composta da Pietro Bembo, che istituzionalizza la donazione Grimani.
Oggi ospitata al Museo Archeologico Nazionale di Venezia.

Sul ruolo che esercitarono queste opere sull’arte rinascimentale vi riporto ancora una volta una citazione di Stewart, con il consiglio naturalmente di leggere il suo contributo del 2004: “[t]hey represented the raw material for Renaissance world making”, una riflessione che mi richiama subito alla memoria il commento di Bing al prezioso lavoro di Warburg: “Egli poté così constatare che gli artisti o i loro committenti e dotti consiglieri, quando sceglievano i loro modelli, non si preoccupavano in prima linea del contenuto delle opere antiche, ma del loro linguaggio mimico” (Bing 1960). Come scrivono i coordinatori del seminario Mnemosyne: “Nell’intuizione critica di Warburg il recupero rinascimentale dell’antico non si esaurisce nel mero riconoscimento di una autorevolezza estetica o contenutistica dei modelli, ma rivivifica l’antichità in primis per la sua valenza espressiva”. L’antico viene quindi riscoperto e certamente usato come fonte di modelli, ma diventa anche la materia prima essenziale alla creazione di qualcosa di assoluta novità che prima non esisteva.

Attalo, Atene e Roma

Acropoli di Atene
Acropoli di Atene dal teatro di Dioniso

Alcuni cenni storici essenziali: Attalo I, re di Pergamo, è noto storicamente per la sua vittoria del 237 a.C. ca. contro l’avanzare dei Galati, celebrata in modo grandioso dai monumenti eretti nella sua capitale. Nel 200 a.C. il sovrano accorse in aiuto di Atene, proteggendola dalla minaccia macedone che stava “threatening its utter annihilation just like the barbarous Amazons and Persian had done” (Stewart 2004). Attalo I fu quindi celebrato come eroe di Atene e venne istituita una nuova tribù con il suo nome. Anche il suo successore, Attalo II, continuò ad interessarsi di Atene e, come è noto, patrocinò la costruzione dell’omonima stoà presso l’agorà (vedi l’articolo dedicato).

“Presso il muro meridionale [dell’Acropoli di Atene] Attalo dedicò la lotta detta dei Giganti, che un tempo abitavano intorno alla Tracia e all’istmo di Pallene, la battaglia degli Ateniesi contro le Amazzoni, l’impresa contro i Persiani a Maratona e la strage dei Galati in Misia, [statue che misurano] ognuna due cubiti”

Pausania I.25.2

Pausania è l’unica fonte a testimoniare la presenza sull’Acropoli di Atene di un gruppo, evidentemente piuttosto complesso ed articolato, di statue (in bronzo) dedicate da un re Attalo (non è ancora pienamente risolta l’attribuzione ad Attalo I o II) e raffiguranti temi cari sia alla tradizione greca che a quella pergamena. Il fil rouge che accomuna le quattro tematiche è senza dubbio il confronto-scontro con l’altro, con ciò che greco non è, accostando il mito con fatti più propriamente storici. In un ordine che potremmo definire cronologico, si susseguono Gigantomachia, Amazzonomachia, Persianomachia e Galatomachia.

Le indagini condotte presso l’Acropoli dagli anni Novanta hanno permesso a Manolis Korres di collegare una serie di basi in marmo proprio a questo monumento. L’articolazione dei blocchi e le evidenze di grappe e sistemi di ancoraggio di statue bronzee, sono pienamente compatibili con uno sviluppo in quattro lunghi basamenti, come intuibile dal racconto Pausania, che ospitavano sculture delle dimensioni delle attuali copie romane.

“Despite its modern nickname, then, the Attalid Dedication apparently was huge: the longest Hellenistic free-standing sculptural monument yet known, lining almost the entire available space between the Parthenon and the eastern corner of the citadel”

Stewart 2004, p. 196.

Dove sono i vincitori?

Appare decisamente verosimile che il donario attalide sull’Acropoli di Atene comprendesse, oltre ai vinti, anche i vincitori. Il messaggio di supremazia (morale, culturale, etc) della grecità sul barbaro non poteva infatti essere trasmesso in modo efficace altrimenti, come ampiamente testimoniato dalla tradizione della decorazione scultorea, soprattutto templare. Tuttavia le copie romane a noi pervenute sono tutte pertinenti ai soli vinti e, come emerge dall’analisi di Stewart, non sembra essere una fatalità: “[i]n imperial Rome the elimination of the victors ostensibly removed the eros-laden glance entirely [… and] effectively reunifies the gaze and decisively realigns the spectator with it. Scrutinizing these tortured little bodies, he channels the unseen majesty of the emperor and the res Romana”. (Stewart 2004).

Le copie romane, tutt’altro quindi che passive riproduzioni, danno voce a nuovi messaggi e incorporano nuovi significati ben diversi dagli originali greci. Non è conveniente che mi dilunghi qui sulle problematiche inerenti alla datazione e alle ipotesi di provenienza delle sculture romane, per le quali vi invito ad approfondire sui contributi di Stewart e Coarelli.

Bibliografia

Consigli di lettura

  • AA.VV. 2014, Metamorfosi delle virtù d’Amore nella Firenze Medicea, La Rivista di Engramma, 114.
  • Bejor, G. Castoldi, M. e Lambrugo, C. 2013, Arte Greca, Milano.
  • Bing, G. 1960, Aby M. Warburg, La Rivista storica italiana, 72.
  • Coarelli, F. 2014, La gloria dei vinti: Pergamo, Atene, Roma, Milano.
  • Stewart, A. 2004, Attalos, Athens, and the Akropolis: the pergamene Little barbarians and their Roman and Renaissance legacy, Cambridge