Dopo un po’ di tempo torno finalmente a dedicarmi alla Dattilioteca. Ho una buona scusa però! Consegnata la tesi al mio relatore, posso dedicarmi a del sano svago in attesa della prossima revisione, e sono quindi a parlarvi della Ca’ d’Oro, ed in particolare del barone Giorgio Franchetti e del suo personalissimo rapporto con l’antico. È doveroso segnalare da subito un bellissimo articolo di Giulia Zaccariotto, grazie al quale ho appreso molte informazioni, alcune le ritroverete in questo post, e che consiglio vivamente di leggere.

Nacho Carbonell alla Ca' d'Oro
Nacho Carbonell alla Ca’ d’Oro

La Ca’ d’Oro, uno dei più splendidi e famosi palazzi sul Canal Grande, fu acquistata da Franchetti nel 1894 e sottoposta ad un importante restauro che le conferì sostanzialmente l’aspetto che oggi conosciamo. Non mi posso soffermare sugli incredibili tesori che il museo custodisce – basti solo menzionare il San Sebastiano del Mantegna – e vorrei qui descrivere la decorazione marmorea e musiva del portego al pian terreno.

Corte Ca' d'Oro
Corte della Ca’ d’Oro

Il palazzo ospita, in occasione della Biennale d’arte, delle installazioni di designers contemporanei che dialogano perfettamente con gli spazi, ma che potrebbero deviare l’attenzione dai punti che voglio sottolineare, quindi alternerò delle foto fatte oggi con alcune di qualche tempo fa.

Appena oltrepassata la biglietteria è impossibile non attardarsi nell’atrio porticato della corte dove i riflessi dell’acqua illuminano la straordinaria decorazione dei pavimenti e delle pareti, oltre che i marmi e le statue qui collocati. Malgrado le evidenti somiglianze con la basilica di San Marco e quella dei Santi Maria e Donato (Murano), non bisogna farsi ingannare: i rivestimenti cosmateschi sono infatti frutto dell’estro – e dei tempi – di Franchetti, che si impegnò in prima persona non solo nella loro progettazione, ma anche nella scelta dei materiali, nella sagomatura delle tessere e nella loro posa.

Riporto qui le parole di Cremonini, che ben inquadra l’opera del barone: “concepita nel suo insieme con quello stesso gusto estetizzante, tra le pratiche del «pastiche, culto dell’autenticità e senso del pittoresco», che permeava la cultura lagunare fin de siècle e che trovava una delle voci più autorevoli nelle idee e negli scritti di Gabriele d’Annunzio”.

D’Annunzio, in realtà, collaborò in prima persona all’opera, e ricorda: “Vedevo, a traverso il battente, nella sala terrena, me chino, con Giorgio Franchetti e con Angelo Conti, me in ginocchio come un operaio a commettere nello stucco porfidi e serpentini per rifare il pavimento di musaico” (Licenza, 1916).

Mosaico pavimento Ca' d'Oro

Il barone tuttavia, da collezionista quale era, nonché animato da una concezione per il restauro che oggi è decisamente superata, volle impiegare materiali antichi – di reimpiego (spolia) – per il suo grande opus sectile. E proprio questa sua “intransigenza” e concezione molto personale (per quanto diffusa a fine Ottocento e oltre) di “originale” lo portarono a scontrarsi con il famoso archeologo veneziano Giacomo Boni. Come ricorda Zaccariotto, le due personalità ebbero modo di confrontarsi già in merito ai restauri integrativi del pavimento della basilica di San Marco, ma furono i lavori alla Ca’ d’Oro a palesare i loro differenti – quasi agli antipodi – approcci al restauro.

In una lettera indirizzata a Ricci (già sovrintendente a Ravenna), Franchetti scrive “le dirò che sono piastrelle di porfido e serpentino che mi occorrono […]. Più tardi mi occorrerà ancora del marmo greco, ma a macchia ondulata. Se Ella conosce qualcuno dei tanti marmoristi di Roma non avrà che a farne ricerca e vedrà che ne troverà quanto vuole”, inoltre il barone si lamenta espressamente di Boni affermando: “Si figuri se Boni non ha i marmi di cui ho bisogno!”. Come appare evidente visitando oggi la Ca’ d’Oro, i materiali arrivarono a destinazione, non solo le piastrelle ma anche il tanto desiderato marmo greco, quest’ultimo proveniente dalle gradinate di San Paolo a Roma.

Il portego, così decorato, si presenta come una teca musiva ideale ad accogliere statue e marmi, ancora una volta antichi o ad esso ispirati. Al centro del cortile campeggia la vera da pozzo in marmo rosso di Verona, scolpita da Bartolomeo Bon alla fine degli anni ’20 del XIV sec., come una sorta di grande capitello corinzio dove, tra le foglie di acanto, si fanno spazio le allegorie della Fortezza, Giustizia e Carità. Molto più tardo invece (secondo decennio del 1800) il gruppo con Chirone che insegna a suonare la cetra ad un rapito e giovane Achille. Verso la porta d’acqua è collocata la Flora tardo rinascimentale, che dichiara naturalmente la sua ispirazione all’arte antica, mentre tornando verso l’entrata si può vedere un originale torso virile, copia romana da modello greco classico, e il cippo in porfido, segnacolo del luogo dove riposano i resti del barone, dove si legge “Hic vivens artium fragravit amore – Hic deflecta cinis iacet – Hic genius superest tutator”.


Consigli di lettura

  • Cremonini, Claudia; Ferrara, Daniele (2017). Memoria e progetto. Guido Strazza per Ca’ d’Oro. Venezia: Antiga Edizioni.
  • Fogolari, Gino; Nebbia, Ogo; Moschini, Vittorio (1929). La R. Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro: Guida-Catalogo. Venezia: Premiate Officine Grafiche Carlo Ferrari.
  • Zaccariotto, Giulia (2015). «Frammenti di porfido e serpentino». Giacomo Boni e Giorgio Franchetti: contrasti per il reimpiego di marmi antichi a Venezia tra Otto e Novecento, in “MDCCC 1800”, 4.